Luciano D’Alfonso, senatore Pd, già governatore dell’Abruzzo e sindaco di Pescara, parla per la prima volta dopo l’elezione a Palazzo Madama.

Senatore, cosa ne pensa dell’inizio della Legislatura di Marsilio?

«Quando fui eletto sindaco a Pescara nel 2003 la principale premura dei collaboratori che trovai al lavoro in quella realtà fu quella di mettermi a disposizione la carta intestata e i biglietti da visita. Questi primi 5 mesi di presidenza Marsilio mi fanno pensare a quel livello di lavoro».


E dell’opposizione del centrosinistra di Legnini?

«Il centrosinistra in Consiglio regionale, malgrado l’esiguità dei seggi, ha la larghezza delle posizioni figlia dell’impostazione seguita nell’ultimo confronto elettorale. Per questo credo non sia facile definirla in modo univoco. Approssimando, credo che nessuno possa negarle riconoscibilità. E credo anche che non manchi il diffondersi di una consapevolezza nei territori che quella proposta fosse preferibile a quella che poi ha conseguito il successo».


Cosa pensa del risultato elettorale di Legnini e della sua coalizione allargata e pluralista? Poteva fare di più e come?

«Nelle condizioni date non si può non riconoscere la generosità, l’originalità e l’impegno di tanti che hanno condotto quella battaglia che sembrava così scontata nell’esito. Credo che ci avrebbe aiutato partire prima nell’elaborazione originale e nella diffusione di un programma netto e, soprattutto, nella costruzione delle liste civiche, nelle quali sarebbe stato forse opportuno coinvolgere anche altre persone del tutto estranee alla vicenda politica, ma rappresentative di territori e di tessuti sociali. Ma resta il valore seminale dell’esperienza che si è compiuta».


Lei è stato accusato di aver abbandonato la Regione per andare in Senato, avendo già chiara la sconfitta del centrosinistra. Cosa risponde?

«La mia candidatura al Senato mi è stata chiesta con forza direttamente dal vertice nazionale del Pd che, nella consapevolezza della difficoltà delle elezioni del 4 marzo 2018, ha cercato di candidare le persone più rappresentative nei territori. Non sono solito sottrarmi alle richieste della mia comunità e mi sono reso disponibile ancora una volta. Peraltro, dopo 1500 giorni di lavoro, avevamo messo in campo proceduralmente tutto quello che l’ente Regione poteva fare per il territorio abruzzese: da quel momento in poi per aggiungere servivano i poteri nazionali; se avessimo vinto le elezioni con certezza avremmo avuto una presenza dell’Abruzzo nel governo del Paese e non in un sottoscala ministeriale».


Autostrade e Ricostruzione, perché vanno così a rilento?

«C’è il ginepraio delle norme, c’è l’altalenante qualità della pubblica amministrazione, c’è l’incognita della determinazione delle imprese a guadagnare col lavoro o a preferire i contenziosi che fermano i cantieri. C’è bisogno di una immersione nella realtà che ostacola il percorso realizzativo, dalla progettazione alla consegna dell’opera alla cittadinanza, e della disponibilità a riformare in modo conseguente l’ordinamento e la macchina pubblica. Sulle autostrade aggiungo che i prezzi di utilizzo delle autostrade in Abruzzo sono alti a causa di una convenzione assurda frutto di una pazza gara internazionale, fatta con la testa tra le nuvole nel 2001. Il dramma è che quei prezzi sono destinati a crescere, se non si definisce un nuovo piano economico e finanziario che scongiuri quella insostenibile progressione. In caso contrario si rischia che le nostre autostrade restino senza utente».


E il masterplan?

«Il masterplan è la più grande operazione di attrazione di risorse pubbliche realizzata in Abruzzo dalla fine della prima repubblica. È stata realizzata grazie a una straordinaria collaborazione tra il Governo Renzi e la Regione che ho presieduto e ha permesso di mettere a disposizione quasi 3 miliardi di euro per far fronte alle principali esigenze infrastrutturali dell’Abruzzo, tra materiali e immateriali. Le risorse sono lì pronte e disponibili, ma i progetti marciano con una lentezza esasperante, soprattutto al livello delle amministrazioni locali per le ragioni che citavo nella risposta precedente. È una situazione paradossale: quando ero sindaco la Regione non mi dava risorse, governando la Regione sono riuscito a dare le risorse ai sindaci, che però spesso finiscono nelle paludi create da quei dirigenti e funzionari che hanno scelto di tenersi alla larga dai problemi».


Gli scenari di queste difficoltà?

«Vedo due grandi rischi: che un certo politicismo preferisca tenere su un binario morto interventi riconducibili alla nostra stagione di governo e che a un certo punto l’attuale esecutivo gialloverde, sempre più a corto di risorse a causa della spericolata gestione della finanza pubblica cui assistiamo ogni giorno, richiami a Roma le disponibilità non impegnate. Sarebbe una grave sciagura, credo che non siano facilmente ripetibili finanziamenti come quelli di cui stiamo parlando, rischiamo di condannare una regione intera all’irrilevanza nella competizione nazionale e internazionale. Il mio è un appello a tutti: quelli non sono gli interventi di D’Alfonso, sono gli interventi dell’Abruzzo: realizziamoli». 

Cosa fa lei in Senato per l’Abruzzo?

«Lavoro molto in commissione e in aula per rappresentare le istanze dei territori e delle comunità e interloquisco anche con tutti i gangli della pubblica amministrazione per risolvere nel modo più corretto e celere possibile i problemi che conosco e quelli che mi vengono rappresentati. Sto lavorando a una legge sulla premialità fiscale che incoraggi chi produce occupazione, innovazione e sostenibilità ambientale; credo che riscontrerà qualcosa di più di un interesse di lettura da parte dei colleghi della maggioranza. Inoltre, non vedo l’ora di approfondire nella commissione di inchieste sulle banche le vicende mai chiarite che hanno messo all’angolo il sistema bancario abruzzese, determinando un danno gravissimo alla vita economica regionale».

Quali umori raccoglie nei suoi contatti con il territorio abruzzese?

«C’è grande disillusione nei confronti di chi governa, del resto chi svolge questa funzione oggi viene come invecchiato dalle decisioni che assume. Il rischio è che questo stato d’animo non alimenti consenso per altre proposte, ma vada a ingrossare il fronte di chi ha perso le speranze nei confronti della democrazia e non partecipa più neppure al voto. Per quel che riguarda me percepisco di essere considerato come un decisore che non ha paura di assumersi responsabilità e di pagarne eventualmente il prezzo».

Pensa sia possibile a livello regionale un accordo Pd-M5S?

«Occorre discernimento. Credo che non ci sia più spazio per la politica che pensa solo a se stessa e che muta le formule per restare in piedi. Penso sia necessario ridefinire le istanze per le quali si fa politica e ci si propone di svolgere l’altissima funzione della rappresentanza popolare. C’è bisogno di una nuova radicalità che si faccia carico di chi è escluso e di chi ha perso fiducia nelle istituzioni. C’è bisogno di concepire cosa la democrazia ci suggerisce come percorso dopo la democrazia stessa. In questo cantiere è possibile definire i percorsi comuni e le contrapposizioni profonde, ovvero ciò che parla di condivisione e ciò che indirizza alla battaglia politica».

Che ne pensa del fatto che il centrosinistra ha perso anche il Comune di Pescara?

«Il centrosinistra nei 5 anni di amministrazione ha rimesso in pista a Pescara una macchina già avviata alla demolizione. Nel farlo, però, non è riuscito ad alimentare il rapporto con la cittadinanza. C’è stata una sorte di timidezza realizzatoria rispetto alla quasi sfrontatezza che sarebbe stata necessaria nelle condizioni date. Evangelicamente direi che è stato un peccato gravissimo non aver appaltato le aree di risulta».

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